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10 DICEMBRE 2016
Gazzetta di Mantova - Morto dopo la missione in Bosnia: ok al vitalizio

La Cassazione dà torto al Ministero e ragione ai genitori del militare ucciso da un tumore nel 1999. Il legale: «Riconosciuti i benefici da vittima del dovere a chi è stato esposto a rischi per la salute»
di Francesco Abiuso

SAN MARTINO DALL’ARGINE. Una sentenza storica, che chiude per sempre una lunga battaglia legale. E che potrà servire a tutti coloro, militari e no, che per aver servito lo Stato e le sue leggi hanno avuto un danno grave alla propria salute anche a distanza di anni. In breve, a tutte le “vittime del dovere”.

Tra queste ora c’è Marco Riccardi, di San Martino dall’Argine, artificiere dell’Esercito che nel 1999 morì di una rara forma di tumore, il rabdomiosarcoma alveolare. Dal settembre del 1997 al marzo del ’98 aveva partecipato alle operazioni svolte dal nostro esercito in Bosnia. Il suo ruolo, come anche era avvenuto nel 1993-’94 in Somalia, era quello di lavorare con le armi. Gli ordigni inesplosi lasciati delle milizie locali in Somalia, che venivano fatte brillare. Stessa cosa in Bosnia: gli ordigni recuperati venivano fatti esplodere nei camini, poi bisognava controllare che tutto fosse avvenuto a regola d’arte. Quando nel 1999 si presentarono i sintomi di una malattia che non diede scampo al giovane (morto nell’ottobre ’99 dopo un’operazione dagli esiti purtroppo vani), si arrivò presto a pensare che il rabdomiosarcoma fosse da mettere in relazione con le scorie nocive rilasciate nell’aria dalle esplosioni delle armi.

«Esplosioni assai pericolose, specie con armi all’uranio impoverito – spiega l’avvocato Andrea Bava che ha seguito il caso –, perché portano la temperatura ad alzarsi in modo elevato e innescano la scomposizione dei metalli negli organismi, causando gravi danni».

 

Passano però dieci anni dalla morte di Marco prima che i suoi genitori, Piercarlo Riccardi e Enrica Maragni, contattino il Ministero. Con una sottolineatura che ricordano anche oggi: «Noi non abbiamo mai chiesto il risarcimento dei danni – precisa Piercarlo Riccardi –, perché nostro figlio non l’avrebbe mai voluto: quella di fare il militare era stata una sua precisa scelta di vita». Infatti, sin dall’inizio la decisione non è quella di fare causa al Ministero (cosa che peraltro avrebbe richiesto l’accertamento di una responsabilità dell’Esercito), bensì chiedere il riconoscimento di un trattamento assistenziale (vitalizio, versamento una tantum, l’assistenza psicologica ed alcune agevolazioni sui farmaci) che lo Stato dalla finanziaria 2006 (legge 266/2005) riconosce appunto alle vittime del dovere, al pari di quelle del terrorismo.

Da qui è una lunga battaglia: i familiari di Marco incassano due secchi no dai comitati di verifica consultati nell’istruttoria del Ministero, prima di cambiare strategia e rivolgersi al tribunale del lavoro di Mantova, che nel 2013 pronuncia la sua sentenza a favore dei Riccardi, riconoscendo il diritto all’assistenza. Ma non è finita, perché il Ministero fa appello, e poi, sconfitto in secondo grado, si rivolge alla Cassazione. Solo ora quest’ultima, facendo deliberare le proprie Sezioni civili, ha dato l’ok definitivo interpretando la legge: «La Suprema Corte – spiega l’avvocato Bava – ha stabilito due concetti. Primo, non compete al giudice amministrativo (come invece sosteneva il Ministero) bensì a quello ordinario pronunciarsi su simili vicende che riguardano l’attività dei militari, perché questo tipo di tutela non è legata al lavoro svolto ma al tipo di danno subito. E questo è importante perché il tribunale ordinario ha criteri probatori molto più favorevoli e tempi molto più agevoli. Secondo concetto: per la Corte in materia assistenziale basta provare che il soggetto ammalato sia stato esposto al pericolo perché si possa dare il via al vitalizio, senza accertare il nesso tra l’esposizione e la malattia».

Così questa decisione potrebbe servire non solo a tutti i militari morti per le conseguenze del loro lavoro, ma a tutti coloro che lavorando in nome dello Stato hanno subìto danni a distanza di anni, senza che ciò venisse riconosciuto.

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