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Cronologia delle attività
08 APRILE 2022
8/9 aprile 2022, Napoli: “Convegno Diritto - Processo - Esecuzione Penale. Effettività della pena, un tema ancora attuale” - organizzato da Magistratura Indipendente

L’8 e il 9 aprile 2022, presso la Biblioteca di Castel Capuano – Napoli, si terrà il “Convegno Diritto - Processo - Esecuzione Penale. Effettività della pena, un tema ancora attuale”, organizzato dall’Associazione Magistratura Indipendente.

L’apertura dei lavori è prevista per le ore 15.00.
Alla manifestazione parteciperà anche il Presidente dell’Associazione Vittime del Dovere, Emanuela Piantadosi.

Per info e iscrizioni clicca qui.

Clicca qui per vedere il video del convegno. (L'intervento del Presidente dell'Associazione Emanuela Piantadosi è al minuto 3:48:00)

Napoli, 8 aprile 2022

“Convegno Diritto - Processo - Esecuzione Penale. Effettività della pena, un tema ancora attuale”

Esecuzione Penale e tutela delle vittime – Giustizia riparativa

Organizzato da Magistratura Indipendente

Intervento del Presidente dell’Associazione Vittime del Dovere Dott.ssa Emanuela Piantadosi

Buon pomeriggio a tutti e grazie per questo prezioso spazio che mi è stato concesso. Grazie a Magistratura Indipendente e in particolare al Dott. Antonio D’Amato e a Mariagrazia Mandato.

L’Associazione di volontariato Vittime del Dovere è un’organizzazione apartitica e senza scopo di lucro.

È stata fondata nel 2007 e riunisce attualmente circa 500 famiglie di appartenenti alle Forze dell'Ordine, Forze Armate e Magistratura, caduti o rimasti invalidi nel contrasto alla criminalità comune, alla criminalità organizzata e al terrorismo. Opera su tutto il territorio italiano, affinché:

  • sia onorata la memoria dei caduti
  • siano garantite eque e adeguate tutele alle famiglie delle vittime
  • venga diffusa la cultura della legalità tra i giovani

Il tema oggi proposto e che mi accingerò ad affrontare è:

Esecuzione Penale e tutela delle vittime – Giustizia riparativa.

Sebbene sia la rappresentante di un’associazione che riunisce le cosiddette “vittime qualificate” (intese come coloro che hanno subito un evento lesivo riconducibile all’espletamento di funzioni istituzionali), ritengo sommessamente di poter parlare in prima persona quale vittima per la mia esperienza personale di orfana. Ma ancora di più, la mia storia familiare mi autorizza a discutere sull’esecuzione penale: mio padre, il Maresciallo Capo Stefano Piantadosi, Medaglia d’oro al Merito Civile, venne ucciso il 15 giugno del 1980 da un ergastolano evaso dopo la concessione di un permesso premio.

Certo, tutto ciò probabilmente per qualcuno non propenderà a mio favore, poiché molto spesso le vittime vengono additate con l’appellativo, poco gradito, di soggetti vendicativi. E mi rammarica che lo stesso Ministro della Giustizia Marta Cartabia, a più riprese, abbia espresso similitudini, evocando le figure mitologiche delle Erinni, sia nel testo “Giustizia e Mito” del 2019, sia in interviste e lezioni magistrali più recentemente.

Con stupore in un convegno tenutosi a Firenze nel febbraio 2022, organizzato dalle Camere penali della Toscana, addirittura la vittima è stata definita “quasi invadente”. Il titolo del dibattito era “I nuovi rei: vittime delle vittime?”

Ebbene, siamo amareggiate nel prendere atto dei continui tentativi di deresponsabilizzazione, attuati ad appannaggio di autori di reato, i quali vengono addirittura nobilitati attraverso capziose nomenclature e mediante l’attribuzione di terminologie che riconducono ad una condizione dolorosa e devastante che gli stessi hanno fatto subire, spesso scientemente, a soggetti inermi e innocenti. Ora siamo arrivati all’assurdo che i carnefici paradossalmente si definiscano “le vittime delle vittime”! 

In tutto ciò c’è un aspetto che deve apparire cristallino: è il concetto di responsabilità nell’azione criminosa che apoditticamente non ci appartiene. Come riconosciuto da coloro che hanno un barlume di onestà intellettuale, noi non siamo vittime per scelta, questo ruolo ci è stato affibbiato con violenza, per determinazioni altrui e forse per colpa dell’inadeguatezza del sistema sociale e talvolta anche giuridico.

Quando poi abbiamo l’ardire, data la nostra esperienza “sul campo”, di formulare proposte di modifica di un sistema che, non solo a parole, ma nei fatti, risulta lacunoso, se non addirittura viziato, allora diventiamo coloro che vogliono svuotare il processo dalle garanzie difensive e fare irruzione in un procedimento che per taluni appare perfetto. Ma credo che ci sia poco di perfetto e il procedimento penale di sicuro non lo è.

Come Associazione, nel corso degli anni, abbiamo sempre sostenuto l’imprescindibilità della funzione delle Vittime all’interno del procedimento penale, presentando presso le commissioni giustizia del parlamento anche alcune osservazioni ed emendamenti all’attuale legge n. 134 del 27 settembre 2021 “Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello”.

In particolare, avevamo chiesto la revisione dei diritti e delle facoltà della parte offesa, secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

  1. a) prevedere che alla vittima del reato sia garantita la partecipazione al procedimento penale come parte sostanziale e necessaria
  2. b) prevedere che alla vittima del reato possa essere anche concessa la possibilità di costituirsi come parte nel procedimento penale con esclusivo interesse alla ricostruzione del fatto e delle connesse responsabilità dell’imputato, oppure, in alternativa, costituirsi parte civile, perseguendo solo l’interesse civilistico al risarcimento del danno
  3. c) prevedere che la vittima del reato, oltre ad essere sentita durante il procedimento penale, possa presentare elementi di prova
  4. d) prevedere che la vittima del reato possa godere di un pieno diritto alla difesa, alla prova ed alla critica della decisione, attraverso l’accesso diretto ai mezzi di impugnazione.

Ovviamente tali proposte ad oggi non sono state considerate.

Fatte queste necessarie premesse appare evidente lo sguardo critico e diffidente con cui osserviamo il procedimento penale, ma che vuole configurarsi quale intento comunque proattivo.

Innanzitutto, è noto di come le vittime vengano prese in considerazione esclusivamente nella fase successiva alla comminazione di una pena.

Allorquando si è fatta espressa richiesta di considerare la vittima come una parte processuale – così come abbiamo manifestato più volte pubblicamente e istituzionalmente – ecco che si è palesato il solito ritornello: la funzione punitiva spetta alla Stato e le vittime sono una parte circoscritta e limitata alla mera richiesta di risarcimento danni.

Quindi, sebbene si riconosca la necessità che la funzione punitiva venga gestita da un terzo, così come tutta la struttura della macchina della giustizia, d’altro canto qualcosa non torna nell’attuale sistema.

Se è vero che la funzione spetta alla Stato, perché alle vittime o ai loro familiari non viene concesso di partecipare attivamente al processo, essendone parte in causa loro malgrado? Qualcuno vocifera che potrebbero essere fonte di distrazione. Sono solo malelingue?!!!!

Se tale considerazione fosse vera, apparirebbe comunque assurda e irreale, poiché è di tutta evidenza che le vittime molto spesso devono difendersi, perché sono additate come responsabili in prima persona di quanto accaduto. Addirittura, si è verificato che la memoria delle vittime venisse strumentalmente oltraggiata come ignobile strategia difensiva. Possiamo fare i nomi e i cognomi.

Vogliamo forse nasconde che in molti processi la difesa arriva al parossismo di addebitare alla vittima una qualche responsabilità? Non mi limito a rammentare sommessamente la facilità spregevole con cui si accusano le donne vittime di violenza, ma qualora volessimo vagliare gli atti del procedimento contro un appartenente alle Forze dell’Ordine, senza timore di smentita, constateremmo che il primo accusato risulta essere addirittura la stessa vittima. Viene scandagliato in modo ossessivo il suo modus operandi, cogitandi e moriendi! Per i familiari ciò rappresenta l’ulteriore lacerazione di quella ferita che rimarrà sempre aperta.

Ma anche volendo sorvolare sul diritto di difesa – che pare spetti solo al reo, nonostante le voci di alcuni su un vigente ipervittimismo – la garanzia del regolare svolgimento del processo viene consentita dalla difesa tecnica.

Quello che si chiede è di essere ascoltati come voce qualificata, non come eco di un’azione cruenta e irreversibile compiuta in un determinato luogo e tempo. L’essere calati nella realtà storica, non solo fattuale, ma anche umana di chi subisce un fatto di sangue non può e non deve essere visto come un vulnus.

Se così fosse, allora non dovrebbero aver peso nemmeno le ragioni che spingono all’azione criminosa. Invece tali ragioni vengono ampiamente approfondite e valutate, soprattutto quando si deve stabilire la pena: perché il fatto di reato non è solo un mero susseguirsi di azioni, è invece il riassunto delle vite di chi ne è coinvolto. Per questo si chiede pari dignità per entrambe le parti di un fatto criminoso.

Queste sono alcune delle richieste, formulate negli anni, che non hanno mai trovato ascolto.

Arrivati a questo punto allora confrontiamoci con ciò che è concesso alle vittime, osservando, scevri da pregiudizi, la realtà attuale.

Esplorando il sito www.giustizia.it cerchiamo di trovare i grandi progetti messi in campo dal Ministero della Giustizia in tema di Vittime come raccomandato dall’Unione Europea e non solo.

Certo, già la ricerca dell’argomento è ardua - e non solo per ragioni di categorizzazione per ordine alfabetico - ma comunque faticando nell’esplorazione giungiamo alla sezione Vittime di reato.

Sull’argomento si afferma che nel 2018 è stato istituito il Tavolo di coordinamento Interistituzionale per i servizi di assistenza alle vittime di reato per promuovere concretamente i servizi necessari e in particolare la “giustizia riparativa”.

Proprio nei percorsi a tema sul sito citato del Ministero della Giustizia viene riportato il decreto istitutivo del suddetto tavolo (m_dg.DAG.06/12/2018.0244626.U) che precisa “l'Italia è dotata di una esaustiva normativa relativa alla posizione della vittima nel procedimento e nel processo penale, ma non di una disciplina organica dei servizi di assistenza alle vittime e di un servizio nazionale di assistenza alle vittime di reato”.

Asserire che esiste una normativa esaustiva lascia perplessi, ma ciò che più meraviglia è che da anni l’Associazione stia chiedendo l’istituzione di un Tavolo per le Vittime e che ci sia anche un ordine del giorno (ODG G/1586 sez. I/2/1) approvato il 12 novembre 2019 e, nonostante ciò, l’unico tavolo istituito non prevede la partecipazione di rappresentanze significative.

Anche in questo caso si lavora per le vittime, ma senza ascoltarle: è inutile interpretare e comprendere le esigenze delle vittime se ad esse non si consente di avere voce.

Proprio questa settimana ho interpellato personalmente l’ufficio preposto e sembra ci sia stato un incontro nel 2018 e nel 2021 “dopo il fermo delle attività a causa dell'emergenza determinata dal diffondersi del contagio da Coronavirus”.

Appare evidente che le tutele delle vittime in termini di sostegno, indirizzo e supporto, previste dalle normative internazionali non si sono mai sostanziate, limitandosi a promuovere gli enti locali o il terzo settore all’attivazione di Centri di sostegno. Al momento il tavolo istituito pare solo una dichiarazione di intenti.

Quando poi parliamo di giustizia riparativa, intesa come l’occasione di superamento del trauma della vittima attraverso la riconciliazione, ancora una volta, questo progetto si traduce esclusivamente in un percorso strumentale a favore del reo.

La giustizia riparativa nasce virtuosamente nell’ambito della giustizia minorile e trova il senso nella possibilità che un soggetto minorenne, non ancora formato, possa trarre insegnamento dall’analisi dei propri errori e dalle conseguenze proprio operato attraverso il confronto con le vittime.

L’applicazione generalizzata alla popolazione adulta, soprattutto ove fautrice di crimini efferati, lascia le vittime dubbiose perché nonostante non abbiano voce nel processo penale, tuttavia vengono coinvolte in una “mediazione” che dovrebbe ricucire i rapporti e chiudere il conflitto, ma che provoca alla vittima soltanto sfiducia nel sistema.

Ebbene, la sfiducia purtroppo non riguarda la volontà di perdonare, ma è la pretesa di far scaturire un sentimento, tanto intimo quanto individuale, da un sistema forzoso ideato ad hoc.

La sfiducia delle vittime è in primis causata dalla sensazione, neppure troppo velata, che non esiste nel nostro Paese la certezza: né del diritto, né della pena.

Durante gli ultimi due anni di pandemia abbiamo assistito alle scarcerazioni dei boss della criminalità organizzata giustificate dall’emergenza sanitaria. Come Associazione Vittime del Dovere siamo intervenuti tempestivamente presentando emendamenti e chiedendo anche attraverso comunicati stampa di apportare modifiche normative che evitassero la continua proroga dei termini per la detenzione domiciliare, i permessi premio e le licenze premio, poiché irragionevoli e ingiustificate. 

Nonostante le nostre istanze e il timore più volte palesato, abbiamo visto esponenti di spicco della criminalità organizzata usufruire indisturbati di tali soluzioni.

La Giustizia riparativa è un obiettivo teoricamente edificante. Tuttavia, ciò che appare, ad un occhio non solo inesperto ma sicuramente colpito gravemente da un sistema carente e vulnerabile, guidato da scelte del momento che sono lontane dalle tragedie che coinvolgono le vittime, è che anche questo ennesimo tentativo di pseudo-attenzione per le vittime sia una sorta di stratagemma per risollevare le sorti del carnefice e per arrivare in alcuni casi addirittura all’impunità.

Certo, la ragione che muove tutto è la funzione rieducativa della pena e la necessità di risocializzazione anche del più accanito criminale. Nessuno lo contesta, è un principio essenziale della nostra Costituzione anche se l’articolo 27 sottolinea espressamente il concetto di “pena” che deve certamente tendere alla rieducazione, ma che sempre pena rimane. In ogni caso ciò che si contesta sono le modalità discutibili con cui si pensa di realizzare questo obiettivo.

Si parla di sovraffollamento carcerario, vero o presunto, e se si tiene conto dei calcoli numerici effettuati secondo parametri europei l’entità del presunto problema di sovraffollamento risulta ridimensionata, poiché lo spazio pro capite di 9 mq per singolo detenuto (oltre 5 mq per gli altri) riservato ai detenuti in Italia risulta superiore a quello di 6 mq (oltre 4 mq per gli altri) ritenuto indispensabile a livello europeo dal CPT (Comitato di Prevenzione della Tortura).

Quanto emerge è che l’Italia garantisce maggior spazio ai detenuti e che tale spazio, ove correttamente distribuito, consentirebbe un minor ricorso alla condanna di “sovraffollamento carcerario”.

E pertanto l’unico mezzo per evitare il sovraffollamento è rappresentato dalle scarcerazioni? Impegnarsi seriamente nell’edilizia penitenziaria, riqualificando e costruendo nuove strutture, oppure promuovendo accordi bilaterali per l’estradizione per la popolazione carceraria di nazionalità estera che costituisce il 30 % dei detenuti, è ritenuta impresa improvvida?

Si sostiene che la recidiva possa essere abbattuta con il ricorso alle misure alternative al carcere, così da realizzare modalità più umane di espiazione della pena.

Anche in questo caso, analizzando il paradigma, emerge che si traggono conclusioni senza avere contezza degli elementi necessari ad una corretta valutazione. Consentire la gestione di misure alternative a soggetti esterni comporta comunque oneri all’Erario pubblico, poiché nessun privato, che non sia del terzo settore, opera gratuitamente, non considerando che questa opzione determina la rinuncia da parte dello Stato dell’esercizio delle funzioni punitive e rieducative che, essendo delegate a terzi, sfuggirebbero dal controllo e dalla verifica diretta dell’effettivo percorso riabilitativo.

L’unico mezzo di riscontro sarebbe allora un conteggio preciso del fenomeno o meglio del parametro della recidiva, ma, anche in questo caso, i dati purtroppo non esistono. Attenzione non affermo quanto sopra per spirito polemico ma perché a specifica domanda il Ministero della Giustizia ci ha risposto che i dati della recidiva non esistono. Ne è prova il fatto che l’osservatorio sulla recidiva è stato istituito solo nel 2018 e si aspettano ancora i dati. Gli uffici del ministero interpellati dalla sottoscritta lunedì 4 aprile confermano che l’ultima riunione del tavolo sulla recidiva risale al 2019 con il Ministro Bonafede e nel 2022 il Ministro Cartabia ha solo nominato i nuovi componenti.

Quindi, concludendo ciò che una vittima vede e sente è sconfortante. Se cerca di intervenire viene zittita perché alla fine è solo una vittima che deve subire le soluzioni che altri ritengono giuste per lei, come se l’aver subito le conseguenze di un fatto sanguinoso non attribuisca titoli sufficienti.

Ebbene, sia consentito dirlo: siamo stanchi di essere sulla bocca di tutti, pur non essendo ascoltati. Non veniteci a parlare di strapotere delle vittime perché di potere, quello vero e sostanziale di incidere sulle decisioni, non ne abbiamo.

Ma questo non ci ferma. Continueremo a formulare proposte anche a coloro che ci considerano poco più di un fastidio. Porteremo avanti istanze di modifica e continueremo a costituirci parte civile nei procedimenti in cui sono parte offesa le Vittime.

Perché è questo che caratterizza, noi vittime, ci sosteniamo a vicenda, nonostante le sofferenze, e investiamo le nostre forze per cambiare lo stato di fatto. Questo ci hanno insegnato i nostri cari, ad agire onestamente e a lottare per ciò in cui crediamo.

Abbiamo cercato di trasformare il nostro dolore in gesti amorevoli di attenzione verso gli altri. Facciamo prevenzione entrando nelle scuole e nelle università, parlando delle storie di umili eroi contemporanei che hanno scritto le pagine di storia più belle del nostro Paese. Parliamo di quei valori granitici e fondamentali che sono alla base dello stato di diritto per cui i nostri cari hanno dato la vita. È così che secondo noi si costruisce una coscienza sociale volta alla legalità. Investiamo il nostro tempo nel formulare progetti di legge, emendamenti e tutto ciò che riteniamo essenziale e giusto per valorizzare il sacrificio supremo di quegli uomini e quelle donne che si sono immolati per la sicurezza, la libertà e la democrazia della nostra amata Italia.

E sebbene si palesi attualmente il goffo tentativo di organizzare “Il mondo alla rovescia”, come narrava sapientemente mezzo secolo fa Gianni Rodari, per noi vittime e per le persone oneste il male non potrà mai essere spacciato per il bene e il lupo non avrà mai le sembianze dell’agnello.

Ricercare e pretendere la verità vuol anche dire attuare la giustizia.

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