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08 DICEMBRE 2023
PoliziaPenitenziaria.it - Associazione Vittime del Dovere contro la riforma Cartabia: per reati di sangue mediazione penale inaccettabile

Dura presa di posizione, in una nota, dell’Associazione Vittime del Dovere dopo quanto scritto oggi sulla stampa relativamente alla strategia difensiva adottata da Cesare Battisti e dai suoi difensori che, per Emanuela Piantadosi, presidente dell’Associazione “manifesta, in tutta la sua crudezza, l’inaccettabile risvolto della riforma Cartabia che consente di ottenere sconti di pena attraverso una, opportunisticamente strumentalizzata, pseudo riconciliazione con le vittime”.

Emanuela Piantadosi è figlia del Maresciallo Stefano Piantadosi, Comandante della Stazione Carabinieri di Locate Triulzi (Milano), ucciso il 15 giugno 1980 ad Opera (Milano) da un ergastolano in permesso premio.
Per i reati di sangue la mediazione penale della riforma Cartabia è insopportabile e inaccettabile, va abrogata”, sostiene con forza.

“La giustizia riparativa, introdotta organicamente nel nostro sistema giudiziario con la cosiddetta riforma Cartabia, è contenuta negli articoli da 42 a 67 del Decreto legislativo numero 150 del 2022 – spiega l’avvocato Sergio Bellotti del Foro di Roma e legale dell’Associazione -.
Prescindendo dal riferimento alle matrici europee dell’istituto, va specificato che nel nostro ordinamento assume un ruolo incidentale rispetto a quello della giustizia ordinaria. I motivi per i quali nel nostro ordinamento la giustizia riparativa non può essere una forma alternativa di giustizia sono rinvenibili all’interno della Costituzione e, in particolare, all’articolo 112, il quale sancisce il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, ciò rendendo impossibile considerare l’eventuale esito positivo della mediazione come un meccanismo impeditivo dell’azione penale”.

“L’obiettivo del programma – evidenzia l’avvocato – è quello di ottenere un esito riparativo, individuato nella “ricostruzione del legame spezzato tra vittima, reo e comunità. Di fatto però l’esito della mediazione può diventare un meccanismo limitativo delle conseguenze dell’azione penale, in ragione delle implicazioni pratiche che dall’adesione a tali programmi possono derivare per il reo, ponendo così dei dubbi di legittimità costituzionale dell’impianto, poiché la fase esecutiva del provvedimento penale è da considerarsi un momento essenziale e costitutivo della stessa azione penale”.

Per il legale dell’Associazione “va da sé che tale scopo, se rapportato ai reati di sangue e, più in generale, a quelli che hanno determinato una tragica modifica del corso della vita delle vittime del reato commesso, così come di quelle dei familiari della stessa, potrà essere solo simbolico e consistente, quindi, in dichiarazioni, scuse formali e impegni comportamentali.
La maggiore criticità della giustizia riparativa va individuata nel fatto che si possa accedere al programma riparativo per qualsiasi reato, a prescindere dalla sua gravità o dai suoi effetti e che la relativa richiesta possa essere presentata in ogni stato e grado del procedimento, anche nella fase esecutiva della pena o della misura di sicurezza”.

“In qualsiasi fase dell’esecuzione, infatti, l’Autorità Giudiziaria – prosegue il legale – può disporre l’invio dei condannati e degli internati, previa adeguata informazione e su base volontaria, ai programmi di giustizia riparativa”.

“In tale fase, pertanto – aggiunge l’avvocato Bellotti – a partecipazione dei condannati e degli internati al programma di giustizia riparativa e l’eventuale esito riparativo sono valutati ai fini dell’assegnazione al lavoro all’esterno, della concessione dei permessi premio e delle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, nonché della liberazione condizionale. Norme, queste, che possono facilmente generare nell’animo di condannati ed internati improvvise fulminazioni sulla via della redenzione sociale legittimamente sospette. Evidenti sono i profili di criticità dell’intero istituto, il cui focus appare, come detto, quello di consentirne l’accesso ad ogni reato, anche a quelli per i quali la frattura con il tessuto sociale appare irreparabile”.

Per Bellotti “sarebbe indispensabile un intervento normativo riformatore della disciplina appena introdotta, che considerasse una preventiva limitazione dell’accesso alle forme della giustizia riparativa, nelle sue diverse fasi e sbocchi, alle fattispecie di reato astrattamente compatibili con quell’intervento riparatore del vulnus sociale e determinato dalla condotta posta in essere. Anche l’apertura alla possibilità di accesso alla giustizia riparativa nel corso dell’esecuzione della pena o della misura di sicurezza presenta poi, in particolare, perplessità e criticità ontologiche, oltre che pratiche, delle quali si dovrebbe tener conto nell’auspicata opera di riforma del sistema”.

L’eventuale percorso riparativo si affianca infatti, “in conformità alle modifiche introdotte dalla legge Cartabia, al trattamento penitenziario ma non lo sostituisce né lo esaurisce: l’adesione a programmi di giustizia riparativa dovrebbe – in sintesi – restare un percorso parallelo ma del tutto indipendente dalle vicende dell’esecuzione penale e dal relativo percorso rieducativo.
Al di là dei dubbi di opportunità, non solo giuridica, delle norme che hanno introdotto tale possibilità di accesso alla giustizia riparativa per qualunque tipo di reato, anche per i più gravi, le possibili interferenze tra il percorso riparativo e quello rieducativo, che comporta l’accesso ai benefici penitenziari e le misure alternative alla detenzione, dovrebbero essere evitate per non dare adito ad iniziative strumentali del condannato finalizzate, appunto, ad ottenere trattamenti di favore in virtù di tale, strumentale, scelta.

In conclusione, l’inserimento del percorso di giustizia riparativa nel programma di trattamento da sottoporre all’approvazione del magistrato di sorveglianza, conclude l’avvocato Bellotti, “pone dei problemi di possibile confusione tra il percorso riparativo e quello rieducativo che, l’auspicata revisione della norma, dovrebbe risolvere”.

Tratto da PoliziaPenitenziaria.it

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