L’Associazione Vittime del Dovere, a fronte dell’imminente e annunciato pronunciamento della Grande Camera (Grande Chambre), intende proporre alcune riflessioni in merito alla posizione assunta dalla CEDU in relazione al ricorso presentato da Marcello Viola, ergastolano condannato per associazione mafiosa, omicidi e rapimenti, in prigione da inizio anni Novanta, il quale ha sostenuto che la pena a lui comminata fosse inumana, degradante e non riducibile.
Per chiarire brevemente i termini della questione, il sistema penale italiano non prevede la pena perpetua, ma il divieto di accesso ai benefici penitenziari e la verifica della pericolosità sociale per una determinata categoria di detenuti (art. 4 bis o.p).
Tale limitazione viene superata se vengono acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, se vi è stata collaborazione con la giustizia (art. 58 ter o.p) ovvero se la collaborazione risulti impossibile o oggettivamente irrilevante.
La Giurisprudenza italiana ha sempre ritenuto che la rieducazione del condannato (art. 27 Cost. comma terzo) dovesse avvenire all’interno del trattamento penale e che la finalità rieducativa della pena non dovesse risultare ristretta in modo irragionevole e sproporzionato, in quanto viene lasciato aperto l'accesso al percorso di risocializzazione. Si è peraltro in attesa del pronunciamento della Corte Costituzionale sulla medesima questione di diritto poiché la Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 4474 del 20 dicembre 2018, ha sollevato la questione di legittimità riguardante il contrasto tra l'articolo 4 bis e la funzione di reinserimento della pena.
L’Associazione, grazie alla collaborazione dell’Avv. Sabrina Mariotti, responsabile dell’Ufficio Legale e dell’Avv. Alessia Meloni, consulente legale che da anni opera al nostro fianco, ritiene che occorra fare chiarezza sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo del 13 giugno 2019, che verrà riesaminata dalla Grande Camera.
“Preliminarmente si osserva che nella sentenza non si fa questione sulla sproporzione della pena dell'ergastolo ma della incomprimibilità de iure e de facto di questa pena.
Già in passato (Decisone Garagin v.Italia n. 33290/07 29 aprile 2008) la Corte ha chiaramente ed inequivocabilmente sostenuto che la reclusione a vita resta compatibile con l'art. 3 della Convenzione Europea sui Diritti dell'Uomo, esprimendosi come segue:”In Italia le pene a vita sono de iure e de facto comprimibili. Peraltro, non si può dire che il ricorrente non abbia alcuna prospettiva di liberazione, nè che il suo mantenimento in detenzione, seppur per un lungo periodo, è.k, b in sè costitutivo di un trattamento inumano o degradante".
Deve essere dunque sgombrato il campo dall'equivoco, generato e amplificato da parte dei mass media, ideologicamente orientati, secondo il quale sia l'istituto dell'ergastolo ostativo sotto il giudizio della CEDU. Peraltro, la stessa Corte osserva che la legislazione interna (dell'Italia) non vieta in modo assoluto e con effetto automatico l'accesso alla liberazione condizionale e agli altri istituti del sistema penitenziario, ma li subordina alla collaborazione con la giustizia.
Le diverse decisione dei giudici delle leggi che si sono susseguite (Corte Cot. 306/1993, 273/2001, 135/2003) hanno infatti legittimato tale meccanismo sulla base della considerazione per cui solo la scelta collaborativa è la dimostrazione della dissociazione dell'individuo dal contesto mafioso, mentre la determinazione a non collaborare, quale atto volontario e libero del detenuto, può legittimamente costituire la base di una presunzione legale della persistenza del legame criminale.
L'art.4 bis O.P. prevede una presunzione di pericolosità sociale del condannato, legata al tipo di reato per il quale è stato condannato. Questa pericolosità e il legame con l'ambiente criminale di appartenenza non scomparirebbero per il solo fatto di essere detenuto.
La Corte dà ampia considerazione alla posizione del Governo italiano, per il quale l'ostacolo rappresentato dall'assenza della "collaborazione con la giustizia" non è il risultato di un automatismo legislativo, che ostacolerebbe in modo assoluto ogni possibilità di liberazione per il detenuto, ma piuttosto la conseguenza di una scelta libera e volontaria.
La Corte dubita invece della equivalenza tra la mancanza di collaborazione e la pericolosità sociale, perchè la mancanza di collaborazione potrebbe non essere il frutto di una scelta libera e volontaria, nè giustificata dalla persistenza di adesione ai "valori criminali" e dal mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza.
La mancanza di collaborazione potrebbe infatti derivare dalla paura di dover subire reazioni violente da parte dei vecchi associati.
Ciò che la sentenza della CEDU mette in discussione, lo si ribadisce, non è l'istituto dell'ergastolo ostativo, ma la immediata equivalenza tra l'assenza di collaborazione e la presunzione assoluta di pericolosità sociale, così come può addirittura esistere con la collaborazione di giustizia orientata da finalità opportunistiche.
A conferma di quanto sopra, la CEDU nel caso specifico conclude che, pur mettendo in discussione l'automatismo "collaborazione di giustizia-assenza di pericolosità sociale" , il detenuto non debba essere rimesso in libertà, negandogli contestualmente anche il richiesto risarcimento in denaro.
Questo esito - nei profili concreti - non fa che confermare che i contenuti dell’art. 4 bis non sono del tutto fuor di logica, senza dimenticare che tale specifica normativa viene dettata dal Legislatore anche per esigenze di sicurezza nazionale, stante l’elevato spessore criminale dei detenuti sottoposti a tali preclusioni.”
La questione, posta nella giusta ottica, ci induce a sperare in un esame più approfondito da parte della Grande Camera del complesso di norme presenti nell’ordinamento penitenziario, che formano un muro di opposizione alla mafia e al terrorismo e che si pongono a favore di una tutela della collettività.
Vorremmo precisare che noi vittime in questi ultimi anni abbiamo molto lottato e continuiamo a batterci con argomentazioni giuridiche ed etiche affinché tali norme vengano mantenute nel nostro ordinamento e nonostante forze contrarie stiano tentando di smantellare direttamente o indirettamente, palesemente o nascostamente il regime detentivo 41 bis.
Riteniamo che il compito dello Stato italiano dovrebbe essere quello di tutelare i propri cittadini dalle più gravi forme di crimine organizzato e di stampo terroristico nonchè di sostenere le Vittime di tali atroci reati. La necessità di tutelare i diritti fondamentali della persona non può non tenere conto delle finalità di garantire la sicurezza nazionale, la prevenzione dei reati e la tutela della collettività.
Vuoti normativi, incompletezza delle disposizioni di leggi, interpretazioni ambigue e capziose, trascuratezza e superficialità di disciplina viene percepita dalle vittime e dai cittadini, come una sconfitta delle Istituzioni e come concessioni di spazi di manovra alla criminalità.
Noi chiediamo soltanto di non essere umiliati dal perdonismo strumentale, che viene percepito dalla mafia come un messaggio di debolezza e di dialogo.
Non vogliamo assolutamente correre il rischio di svuotare di efficacia e di significato uno strumento costato il sangue di numerosi servitori dello Stato mettendo a repentaglio la sicurezza e l’ordinamento democratico del nostro Paese.
Emanuela Piantadosi
Presidente Associazione Vittime del Dovere
Figlia del Maresciallo dei Carabinieri Stefano Piantadosi M.O.M.C. ucciso ad Opera (MI) il 15/6/1980 da un ergastolano in permesso premio.
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