In data 16 novembre ho inoltrato al Direttore de " Il Fatto Quotidiano" Marco Travaglio il contributo redatto dai nostri legali Avv. Alessia Meloni, Avv. Sergio Bellotti e Avv. Sabrina Mariotti al fine della pubblicazione nello spazio che è stato dichiarato aperto ad un dibattito sul regime detentivo 41bis. Oggi leggo che è stata semplicemente pubblicata la mia lettera di accompagnamento al contributo e non i contenuti dell'approfondimento che rappresentano il vero intervento sul tema. Per chiarezza di informazione riporto la documentazione inviata e non pubblicata integralmente. Ringrazio comunque il Direttore Marco Travaglio per l'attenzione ad un argomento che la nostra Associazione sta affrontando con grande serietà in ogni sede istituzionale, sperando che le pagine del Suo Quotidiano possano ospitare compiutamente le nostre riflessioni in merito.
Emanuela Piantadosi
Presidente Associazione Vittime del Dovere
Egregio Direttore,
siamo tre avvocati che lavorano anche per l'Associazione Vittime del Dovere e che, per ragioni professionali, di studio e di ricerca, si sono occupati di 41 bis.
L’avvocato, in quanto garante dei diritti costituzionali, dei principi inalienabili del sistema normativo, difensore - nel processo come nella società - di modelli giuridici, sostanziali e processuali, informati ad un diritto non vendicativo, in un complicato equilibrio tra bisogni di tutela e certezza sociali e rigoroso rispetto dei principi costituzionali, ha il dovere di monitorare il dibattito su temi – quale quello della pericolosità sociale e del regime del 41 bis – che divengono stendardi dello stesso tessuto sociale, prima ancora che del perimetro normativo, per far sì che anche questo si realizzi in conformità alle leggi ed ai principi della Costituzione e della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e dell’Ordinamento comunitario.
Le scriviamo perché in questi ultimi tempi molto e spesso si parla di questo particolare regime carcerario, meglio noto come "carcere duro" o "regime ristretto" e crediamo che delle informazioni in più debbano essere date per comprendere un sistema di detenzione, che è prima di tutto una tecnica di contrasto alla criminalità organizzata.
Una metodologia di disgregazione del vincolo associativo, la cui efficacia è provata dalla reazione, ad esso, della criminalità organizzata, caratterizzata dal sangue versato da chi, il 41 bis, per primo ideò, pagando con la propria vita e finendo ucciso per strage.
È questo il profilo, prima di altri, che caratterizza genesi e ratio del 41 bis, eppure poche volte ricordato laddove – come detto - esso rappresenta invece l’impulso genetico dello stesso istituto.
Il regime del 41 bis si caratterizza per essere uno degli strumenti normativi più importanti, di cui l'ordinamento dispone, seppure immaginato e nato quale strumento di emergenzialità, per isolare soggetti apicali dell'organizzazione criminale e impedire loro di mantenere, anche dall'interno del carcere, relazioni con le compagini mafiose, quasi sempre di carattere familiare, ma anche terroristiche ed eversive, operanti sul territorio ed atte a determinare la gestione o la pianificazione delle attività criminali.
Il regime speciale nasce dalla facoltà del Ministro della Giustizia, tramite proprio decreto, di sospendere il trattamento ordinario e di adottare un sistema di rigore nei confroni dei detenuti per i delitti di cui al comma 1 dell'art. 4 bis o comunque per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso.
Le ragioni, che giustificano tale potere derogatorio, stanno nei "gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica", che deve essere garantita dalla Stato anche attraverso la prevenzione del crimine.
Il regime di cui all'art. 41 bis, contrariamente a quanto indebitamente spesso si ascolta o si legge, non è una sanzione accessoria, che inasprisce la pena, ulteriore e diversa rispetto a quella irrogata.
Sul punto si è autorevolemente espresso Vincenzo Macrì, il quale evidenzia come, sulla base della propria esperienza e sullo studio delle organizzazioni criminali, si fosse giunti a comprendere "che l'ambiente criminale di provenienza non cessava di usufruire dell'attività propositiva ed organizzativa del suo esponente, collocato temporaneamente o stabilmente all'interno della struttura carceraria e che il carcere poteva diventare, come in effetti diventò, il territorio alla pari di un quartiere cittadino o di un paese, sede di un organismo mafioso, trasformandosi da luogo dell'espiazione e della rieducazione in quello della crescita del potere della criminalità organizzata".
L'obiettivo del regime speciale di cui all'art. 41 bis è la disarticolazione delle organizzazioni mafiose e criminali, escludendo quest'ultime da qualsiasi contatto, anche minimo e mediato con i loro capi, assicurati alla giustizia e raggiunti da condanna per reati gravissimi.
Questo contatto non potrebbe essere escluso nel regime carcerario ordinario.
Del resto, che il regime ristretto sia assolutamente compatibile con i principi di tutela della persona e delle sue libertà fondamentali lo afferma la Corte Costituzionale, che con la sentenza n. 376 del 1997, intervenendo sul 41 bis e sull'accusa di illegittimità dello stesso, ha negato il contrasto:
Il problema dei detenuti in regime di 41 bis, Direttore, non è quello del divieto di vestirsi secondo il proprio gusto o dal divieto di comporre il loro letto con lenzuola meno grezze di quelle fornite dall'Amministrazione Penitenziaria.
Ciò che non può e non deve essere sottovalutato è che il vero e grande problema per i detenuti nel regime speciale è che essi, nella condizione di regime carcerario ristretto, perdono la loro posizione di supremazia all'interno della cosca criminale e nell'area di influenza della stessa.
Il mafioso non sente il carcere come un problema per l'esercizio delle sue attività, perchè semplicemente lo ha messo in conto come un'eventualità, scomoda ma non ostativa all'esercizio di quelle che egli ritiene essere le proprie prerogative.
La questione per il mafioso non è il carcere, quello ordinario, all'interno del quale il "capo" sovente continua ad essere il capo e viene dagli altri detenuti riconosciuto come tale. Per chi vuole avere memoria, potranno essere ricordate la gesta di numerosi mafiosi in soggiorno all' "Ucciardone".
Il problema vero, quello serio, che compromette la sua posizione di esponente di spicco di un'organizzazione criminale è solo l’interruzione di ogni legame e collegamento con la stessa, che viene disarticolata dall'assenza del "capo".
Un'organizzazione non è tale senza un "capo" e il "capo" non è più tale senza la sua organizzazione.
Nè, ci si consenta, oggi come oggi, si può liquidare frettolosamente ogni considerazione sul 41 bis, affermando che può essere considerato uno strumento di tortura, o peggio ancora un regime detentivo, con il quale si vuole punire chi non si pente o chi non "collabora".
Perchè questo significa cancellare con un colpo di spugna il passato e ignorare le ragioni di politica normativa criminale, che hanno condotto a questa, che è in primis una modalità essenziale di contrasto alla criminalità organizzata.
E affermazioni di questo tipo non pensiamo affatto possano essere concesse a chi conosce molto bene la storia di questo Paese e le ragioni profonde dei diversi interventi normativi e della Corte Costituzionale, che hanno riguardato questo istituto.
Non può essere propagata l'idea che il 41 bis sia uno strumento di tortura, finalizzato alla collaborazione di giustizia.
Non può infatti sottacersi che all'indomani della pronuncia della Corte Costituzionale del 23 ottobre 2019 n. 253, la collaborazione, di per sè, non garantisce più l'accesso de plano alle misure alternative alla detenzione.
Con questa sentenza è stata acclarata la illegittimità della presunzione assoluta "collaborazione di giustizia-assenza di pericolosità sociale".
Sulla base della endiadi collaborazione di giustizia-assenza di pericolosità sociale, prima dell'intervento della Corte Costituzionale, chi collaborava con la giustizia veniva considerato non socialmente pericoloso e per questo aveva accesso alle misure alternative alla detenzione.
In buona sostanza, a seguito dell'intervento della Corte Costituzionale, non può più dirsi che chi collabora non è più socialmente pericoloso e che conseguentemente possa uscire dal regime detentivo speciale ed essere ammesso alle misure alternative.
41 bis o non.
L'ammissione alle misure alternative non può più dipendere esclusivamente dalla collaborazione.
La presunzione assoluta, che risiedeva nell'assunto ipotetico-deduttivo per il quale la collaborazione di giustizia aveva la significanza giuridica dell’assenza di pericolosità sociale del soggetto, è risultata peggiore di una "lettera scarlatta": evoca infatti la situazione per cui una persona potrebbe essere vittima di una situazione ingiusta, dovuta alla impossibibilità di provare il contrario.
Quello di cui però ancora non si parla e che invece dovrebbe diventare argomento di primo piano è che la dissoluzione di tale endiadi, come conseguenza dell'intervento della Corte Costituzionale, pone oggi un enorme problema di prova, che è quello della pericolosità sociale dei soggetti detenuti per i reati di cui all'art. 4 bis O.P e in alcuni casi ristretti nel regime di cui all'art. 41 bis.
Senza voler procedere ad una tipizzazione di categoria di detenuti sulla base del tipo di reato, perchè questo sarebbe certamente contrario ai parametri costituzionali, deve tuttavia convenirsi che il dato, che sfugge o cosa ancor più grave, di cui non si vuole parlare, è che la pericolosià sociale dei detenuti in regime ristretto, non è astratta e generale, ma specifica e concreta, perchè dipendente da quei delitti, indicati all'art. 4 bis comma 1 O.P. e dall’accertamento con conseguente declaratoria - con efficacia costitutiva – di uno status giuridico fino a quel momento inesistente.
Il tema della prova della pericolosità sociale è estremamente delicato, perchè derivato e generato da un fatto ma che impone di spostare l’attenzione al soggetto, con una valutazione sulle sue responsabilità, non tanto per ciò che ha commesso, quanto per la sua condotta di vita.
Il concetto di pericolosità sociale è altresì un concetto fragile, se non altro perchè non è una categoria giuridica, non ha fondamento scientifico e vive di una dimensione prognostica.
L'accesso alle misure alternative presuppone dunque che dagli elementi, acquisiti dal giudice di sorveglianza, al di là di ogni ragionevole dubbio, il magistrato sia nelle condizioni di escludere prognosticamente l'attualità della partecipazione del condannato all'associazione criminale ed il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata.
Questa è la vera fragilità del sistema, perchè con l'onestà intellettuale, che deve contraddistinguere le professionalità del settore, è ineludibile che, all'indomani dell'intervento della Corte Costituzionale, il giudizio di sorveglianza ha mutato le sue dinamiche e che debba essere rimodulato, tenendo conto che, proprio per la sua nuova portata, non più ancorata all'endiadi collaborazione di giustizia-assenza di pericolosità sociale, questo particolare tipo di giudizio è più responsabilizzante e deve mettere in conto strettissimi margini di errore.
Non vi è dubbio, Direttore, che queste tematiche meriterebbero maggiore approfondimento.
Certo è che diffondere l'informazione per la quale il regime ristretto costituirebbe un "fiancheggiatore delle mafie", una misura criminogena, offrendo la prospettiva del pentimento ad efferati assassini, che sarebbero così incitati a moltiplicare i propri crimini, per avere più cose da rivelare e così strappare misure premiali, non solo non è veridico, ma cozza macroscopicamente con la funzione di questo istituto, con i risultati che attraverso questa tecnica di contrasto alla criminalità sono stati conseguiti.
E tutto questo suona come una drammatica mistificazione dello stato reale dell'arte.
È vero invece che oggi il giudizio di sorveglianza, che è la sede della valutazione della pericolosità sociale, necessita di un intervento normativo, per rimodulare un giudizio, dai cui esiti dipende la tenuta della giustizia, della sicurezza sociale e nazionale.
È certamente un problema di politica normativa ma anche di politica criminale.
Come la storia, anche di questi ultimi giorni, ci insegna, il costoso sociale del ritardo nell'intervento del legislatore normativo, è troppo alto, perchè introduce una falla nel sistema giustizia e della collettività.
Questo bisogna avere il coraggio di dire.
Avv. Alessia Meloni
Consulente Legale dell'Associazione Vittime del Dovere
Avv. Sergio Bellotti
Consulente Legale dell'Associazione Vittime del Dovere
Avv. Sabrina Mariotti
Ufficio Legale dell'Associazione Vittime del Dovere
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