Nato a Nicosia (Enna) il 13 giugno 1933, deceduto per mano mafiosa il 29 giugno 1982 a Termini Imerese, in Sicilia
Prima di giurare fedeltà allo Stato, diventandone tra i più fedeli servitori, Antonino Burrafato a 28 anni partecipò ad un avviso di reclutamento per agenti di custodia. Il corso per allievi si svolse a Portici (Napoli), la sede della sua prima assegnazione, nel 1961, fu la Casa circondariale dei Cavallacci di Termini Imerese. Istituto di pena di una città all’apparenza tranquilla, in un territorio distante dalla guerra tra clan che, a quei tempi, impazzava a Palermo. Antonino Burrafato lavorò nel carcere dei Cavallacci per 21 anni. Nel braccio speciale di massima sicurezza dell’istituto, realizzato ad hoc per esponenti di spicco delle brigate rosse e della mafia siciliana, vigilava sulla detenzione dei ristretti, di uno in particolare: ‘don Luchino’, ovvero, il boss Leoluca Bagarella cognato di Totò Riina, capo di Cosa nostra. Bagarella fu trasferito per un mesetto a Termini Imerese per l'imminente morte del padre.
Antonino Burrafato lavorò in quell’istituto di pena sino al giorno della sua morte. Quel giorno, il 29 giugno 1982, l’Italia intera è sintonizzata sul canale Rai per la diretta tv della partita Italia-Argentina. Si giocano gli ottavi di finale dei Mondiali di calcio in Spagna all'Estadio de Sarrià di Barcellona. È appena estate, ma la Sicilia ‘scotta’ di decine di morti per mafia, anche morti eccellenti e agguati sanguinosi. L’asfalto ribolle anche a Termini imerese. Antonino Burrafato rientra a casa. La moglie, la signora Domenica, è alle prese con le faccende domestiche. Totò, il figlio 17enne, desideroso di una vittoria degli azzurri, azzarda un pronostico che fa sorridere il padre. Sono gli ultimi momenti che trascorrerà con lui. La speranza di una vittoria dell’Italia di Enzo Bearzot, con un avversario molto difficile, sembra impossibile per una squadra che, a fatica, ha superato il turno. Le aspettative del giovane Totò addolciscono i lineamenti sul volto del padre, quasi divertito: vincere la sfida con l’argentina di Maradona è umanamente impossibile. L’Agente di custodia esce di casa per tornare al lavoro, tiene in mano, con cura, un dizionario rosso di lingua italiana consumato dal figlio: la copertina è andata a ‘catafottersi’. Burrafato sta per raggiungere il lato più basso di piazza Sant’Antonio, a pochi metri dal carcere. I suoi assassini lo aspettano a bordo di due Golf, senza farsi notare. Sparano sull’Uomo. I colpi esplosi dalle auto, con dei fucili, non sono letali per il poliziotto. Uno dei killer esce dall’auto e, a breve distanza, finisce l’agente di custodia con un revolver calibro 38. Gli spara altri 5 colpi. Un’esecuzione in piena regola.
L’intuizione del capitano della compagnia dei carabinieri di Termini Imerese, Gennaro Scala, di circoscrivere all’ambiente carcerario le indagini è azzeccata. In un rapporto del 2 agosto 1984, i Carabinieri collegano l’omicidio all’andamento quotidiano della casa circondariale di Termini Imerese e dunque alle complesse attività svolte dal vicebrigadiere Burrafato. Il vicebrigadiere ‘in alcuni momenti, per il concorso di molteplici circostanze, ben poteva apparire come il deus ex machina dell’Istituto. Tutti i testi, infatti, concordano nell’affermare che al sottufficiale ci si rivolgeva anche in luogo del direttore o del comandante delle guardie. Egli era ritenuto l’artefice dei trasferimenti, specie di quelli non graditi dei detenuti, l’autore dei rapporti informativi e disciplinari, nonché il gestore delle attività burocratiche connesse ai colloqui”. Con il trasferimento di Scala, l’indagine subisce uno stop. E per un ventennio la verità si nega come ossigeno negato al sangue. La svolta il 31 ottobre 1996 quando Salvatore Cocuzza, uno dei collaboratori di giustizia più attendibili nella storia dei pentiti di mafia, si autoaccusa dell’omicidio Burrafato. Il 22 febbraio 2001 i sostituti procuratori Maurizio De Lucia e Sandra Recchione chiedono e ottengono dal giudice per le indagini preliminari, Florestano Cristodaro, il rinvio a giudizio di Leoluca Bagarella, Giuseppe Lucchese, Antonio Marchese, Pietro Senapa e lo stesso Cocuzza. Tutti accusati dell’omicidio del vicebrigadiere Antonino Burrafato. Il lungo giudizio si chiude definitivamente con la condanna dei responsabili: Salvatore Cocuzza è stato condannato a 10 anni con sentenza definitiva, Leoluca Bagarella e Antonio Marchese sono stati condannati all'ergastolo anch’essi con sentenza passata in giudicato.
Antonino Burrafato, Medaglia d'oro al merito civile conferita il 26 giugno 2006, con il riconoscimento di Vittima del Dovere
(fonti: ‘Un delitto dimenticato’ Storia di Antonino Burrafato, vittima di mafia’ La Zisa edizioni; ‘Malaminnita Antonino Burrafato e la mattanza degli anni ‘80’sc edizioni; ‘Tutta un’altra storia’ Siciliaondemand edizioni).
Il Presidente Giorgio Napolitano consegna a Salvatore Burrafato l'onoreficenza in menoria del padre Antonino Burrafato.
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