Come sono stati raccontati gli Anni di piombo? E cos’è rimasto, nella memoria collettiva, di quel decennio insanguinato dal terrorismo? L’Italia ha fatto fino in fondo i conti con la stagione della «violenza sociale di massa» che continua a pesare sul nostro presente, oppure l’onere di ricordare è stato lasciato alle famiglie, alle vedove, alle figlie e ai figli delle vittime?
Tre grandi atenei – la Sapienza di Roma, l’università di Padova e la Cattolica di Milano – hanno costituito un gruppo di ricerca intorno a queste domande e per tre anni hanno raccolto testimonianze e documenti per dare risposte indispensabili alla comprensione della nostra storia recente.
Martedì 3 giugno, nella capitale, in presenza del presidente del Senato Piero Grasso, si parlerà di “memoria e oblio” sulla “ferita aperta” degli Anni del terrorismo in un incontro promosso dalla sezione di Psicologia sociale dell’Associazione italiana psicologi, in collaborazione con l’Associazione vittime del dovere.
È previsto anche l’intervento di Arie Nadler, dell’università di Tel Aviv, «tra i più importanti studiosi odierni dei processi di elaborazione delle memorie sociali violente e della riconciliazione tra gruppi».
«Sarà riservato il maggior spazio possibile al confronto con i parenti delle persone rimaste uccise», spiega la psicologa sociale Giovanna Leone, docente alla Sapienza e relatrice insieme con i colleghi Camillo Regalia della Cattolica e Alberto Voci dell’università di Padova, impegnati con lei nella ricerca.
Non a caso, a moderare i lavori sarà Emanuela Piantadosi, figlia – anzi, orfana – del maresciallo dei carabinieri Stefano Piantadosi e fondatrice dell’associazione che unisce «vedove, orfani, invalidi e genitori di appartenenti alle Forze dell’ordine e Forze armate, caduti o feriti durante lo svolgimento dei propri compiti istituzionali».
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