Li hanno chiamati «anni di piombo» per via delle pallottole che fra il 1969 e il 1988 hanno ucciso 197 vittime di agguati terroristici e 38 caduti negli scontri catalogati come episodi di «violenza politica», intervallati dalle bombe che hanno dilaniato 135 persone. In tutto 370 morti, ai quali l’Associazione italiana vittime del terrorismo aggiunge circa mille feriti. È la macabra contabilità di un ventennio che ben presto è diventato (oltre che di piombo e di tritolo) anche «di ferro», per via delle sbarre e delle celle blindate dove sono stati rinchiusi migliaia di detenuti accusati di quei delitti, e poi di associazione sovversiva, bande armate rosse e nere, detenzioni di armi e favoreggiamenti vari.
Un esercito di almeno 4.000 inquisiti per i gruppi di estrema sinistra — le Brigate rosse fondate nel 1970 da Renato Curcio, Mara Cagol e altri; Prima linea nata nel ’76 e decine di altre sigle accumulatesi negli anni — a cui vanno sommati quelli della galassia autonoma e senza sigla, anarchici e cani sciolti. Oltre agli arrestati per appartenenza alle organizzazioni neofasciste, gli stragisti e quelli dello «spontaneismo armato»: prima Ordine nuovo, Ordine nero e Avanguardia nazionale, poi i Nuclei armati rivoluzionari di Giusva Fioravanti e Francesca Mambro, più qualche sigla affina. C’è chi ha calcolato che in totale sono circa 6.000 le persone transitate dalle patrie galere nella lunga stagione del terrorismo nostrano.
Chi resta in carcere
Oggi in prigione con l’accusa (a vario titolo) di eversione nazionale ne sono rimasti 54, 43 uomini e 11 donne. Meno dell’uno per cento. Segno inequivocabile di una stagione non solo finita, ma che ha sostanzialmente chiuso i suoi conti con la giustizia: pene scontate per intero, compresi gli ergastolani che hanno diritto alla liberazione condizionale dopo 26 anni di detenzione.
Quelli che hanno a che fare con il terrorismo rosso che ha deviato il percorso politico del Paese (ad esempio con il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, di cui si celebra il quarantennale) sono meno della metà. Tra gli uomini, sottratti 12 anarchici e 7 di estrema destra, restano 24 detenuti, compresi 3 che hanno dato vita alle «nuove Brigate rosse», che tra il 1999 e il 2003 hanno ucciso Massimo D’Antona, Marco Biagi e il poliziotto Emanuele Petri: un’altra storia. Tra le donne ci sono Nadia Desdemona Lioce, uno dei capi delle «nuove Br» chiusa al 41 bis, 4 militanti anarchiche e una brigatista della vecchia guardia, Rita Algranati, arrestata nel 2004 quando già aveva abbandonato da tempo l’organizzazione.
I maschi «reduci degli anni di piombo» sono ventuno, di cui alcuni reclusi a mezzo servizio, ammessi al lavoro esterno o alla semilibertà; fra loro Mario Moretti (il capo brigatista che guidò l’operazione Moro) e Giorgio Pannizzari, di cui le Br chiesero la liberazione in cambio della vita del leader democristiano.
Gli irriducibili
Rinchiusa a tempo pieno, e in regime di «alta sicurezza», c’è una pattuglia di 11 irriducibili della vecchia guardia, arrestati fra il 1982 e il 1989, che dopo oltre trent’anni di galera effettiva non hanno mai messo il naso fuori nemmeno per un giorno. Sono tutti ergastolani, e se solo lo chiedessero avrebbero la possibilità di uscire come i loro vecchi compagni d’armi. Ma non ne fanno richiesta, perché non vogliono interloquire con lo Stato che hanno combattuto e di cui si considerano tuttora «prigionieri politici».
Il più anziano (ma non all’anagrafe) è Cesare Di Lenardo, cinquantanovenne arrestato il 28 gennaio 1982 in concomitanza con la liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, rapito dalle Br quaranta giorni prima. Un altro paio sono stati presi nel 1983 ma la gran parte è caduta nella trappola dei carabinieri tra l’88 e l’89. Antonino Fosso, latitante dal 1981, fu arrestato trent’anni fa mentre era appostato vicino alla casa dell’allora segretario della Democrazia Cristiana Ciriaco De Mita (all’epoca bersaglio dei terroristi, oggi novantenne); Fabio Ravalli, sua moglie Maria Cappello e altri detenuti di oggi vennero catturati in un blitz del settembre ‘88, ma prima ebbero il tempo di uccidere il senatore Roberto Ruffilli, consigliere di De Mita per le riforme istituzionali, assassinato a Forlì il 16 aprile dello stesso anno: l’ultimo delitto delle Brigate rosse nella prima Repubblica. Tra le donne spicca il nome di Susanna Berardi, arrestata nei primi giorni dell’82 — due settimane prima di Di Lenardo: il primato della detenzione più lunga è suo —, reclusa nello stesso carcere della Cappello e altre tre brigatiste «mai arrese».
Bande armate grandi e piccole
Prima di rimanere gli epigoni volontari di una guerra allo Stato dichiarata unilateralmente e persa da molto tempo, hanno fatto parte di una realtà molto più massiccia (sebbene non di massa, come avrebbero voluto). Nel 1994 il sociologo Renato Curcio, uno dei fondatori delle Brigate rosse tornato libero dopo vent’anni di prigione, realizzò con il «Progetto memoria», una radiografia utile ancora oggi per interpretare il fenomeno del terrorismo rosso, e il modo in cui è stato sconfitto.
Stando alle cifre raccolte in quella ricerca, l’organizzazione che ha avuto il maggior numero di inquisiti furono le Brigate rosse nelle diverse articolazioni in cui si sono divise dai primi anni Ottanta: 1.337 inquisiti distribuiti fra cinque sigle di cui l’ultima (Br-partito comunista combattente) è transitata nel XXI secolo con una ventina di indagati (15 condannati) per i tre omicidi commessi tra il ’99 e il 2003. Al secondo posto c’è Prima Linea, con 923 inquisiti. Seguono altre 18 organizzazioni «maggiori»: dai Nuclei armati proletari (65 inquisiti) alle Unità comuniste combattenti (102), dai Collettivi politici veneti per il potere operaio ((205) ad Azione rivoluzionaria (88). Poi sono state censite altre 23 bande armate cosiddette «minori» con un numero imprecisato di militanti — autori di omicidi, ferimenti e attentati incendiari —, molti dei quali transitati nelle formazioni più celebri.
Le vittime e gli arresti
Questi gruppi hanno firmato, tra il 1971 e il 1998, 128 omicidi (127 uomini e una donna: la vigilatrice del carcere romano di Rebibbia Germana Stefanini, assassinata il 28 gennaio 1983 da un nucleo di Potere proletario armato). La maggior parte, 73, sono stati rivendicate dalle Br variamente denominate, Prima linea ne ha compiuti 20. Nelle divisione delle vittime per categoria primeggiano i poliziotti (38), seguiti da 21 carabinieri e 10 appartenenti a corpi di polizia privata, 8 agenti penitenziari e un vigile urbano. Tra i «civili» figurano 8 magistrati, 6 politici e 6 dirigenti d’azienda, 2 giornalisti. L’anno con più omicidi è stato il 1978 (28), seguito dal 1980 (24), il 1979 (21) fino ai 13 per anno consumati nel 1981 e 1982. Poi sono proseguiti al ritmo di uno all’anno, perché nel frattempo le organizzazioni sono state decimate dagli arresti.
L’anno record per la riscossa di inquirenti e investigatori è stato il 1980: 1.021 arresti, dovuti soprattutto ai «pentimenti» dei primi collaboratori di giustizia: Patrizio Peci nelle Br e Roberto Sandalo in Prima linea. A cui ne sono seguiti altri. Nel 1982, quando a gennaio si pentì il brigatista romano Antonio Savasta subito dopo la cattura e la liberazione di Dozier (a cui seguirono maltrattamenti e torture dei brigatisti presi, accertate dall’autorità giudiziaria), ci fu un’ondata di 965 arresti; cento solo nella settimana tra fine gennaio e inizio febbraio. Nel 1981 erano stati 433, 305 nel 1983.
Età e professione dei brigatisti
Su un campione di 4.087 inquisiti per le bande armate di sinistra, il 76,9 per cento erano uomini (3.142) e il 23,1 donne. Tra le fasce d’età delle persone arrestate la maggioritaria è quella tra i 21 e i 25 anni (1.314, il 32,2 per cento); segue quella 26-30 (28,1 per cento) e fra 31 e 35 anni (12,3).
Nel confronto tra le due organizzazioni principali, Br e Prima Linea, emerge che i militanti brigatisti prima delle scissioni erano mediamente un po’ più anziani (prevalenza del gruppo 26-30 anni d’età) rispetto a quelli di Prima Linea (39,5 per cento sotto i 25 anni); quelli di Pl erano appena più «scolarizzati» (prevalenza di studi superiori rispetto ai medi delle Br, ma stessa quota di universitari: 21,7 per cento) e più radicati al Nord (maggior parte di inquisiti in Lombardia e Piemonte terza regione la Toscana, mentre nelle Br la classifica è guidata dal Lazio, seguita da Lombardia e Veneto). Nelle Br la maggior parte di inquisiti furono operai (23,5 per cento) seguiti dagli studenti (11,2), mentre in Prima linea le due categorie si equivalsero (18,3 studenti e 18,1 operai).
In generale, gli arrestati sono entrati in carcere da giovani, e considerato che la legislazione italiana consente anche agli ergastolani di ottenere i benefici e la liberazione condizionale dopo 26 anni di detenzione (21 reali) significa che sono tornati in società da adulti ma non ancora anziani. In grado di rifarsi una vita. A parte il manipolo di irriducibili che ancora si contrappone allo Stato nel chiuso delle galere. Anche se la guerra è finita da tempo, e gli anni di piombo e di ferro sono un pezzo di storia.
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