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16 LUGLIO 2018
Corriere della Sera - Le indagini di una madre sulla morte di suo figlio: «Lo dovevo a Giuseppe»

UNA DONNA E LA SUA BATTAGLIA

Adele Chiello Tusa si è battuta contro l’archiviazione delle indagini sul 7 maggio 2013 in cui la nave Jolly Nero travolse la torre di controllo e uccise suo figlio e altri otto

La voce di Adele Chiello Tusa, 62 anni, arriva dalla sua Palermo. «Quando sopravvivi a un figlio i ricordi diventano gioielli preziosissimi» premette. Ne ripesca uno di tanti anni prima. «Dopo la morte di Giuseppe misi le mani in vecchie scatole piene di fotografie e oggetti suoi. Ritrovai un foglietto che aveva scritto in prima media. In classe c’era una disputa su un bloc notes danneggiato, lui si inventò un processo e assegnò per iscritto un ruolo a ciascuno: un prof era il giudice, un altro era l’avvocato, i compagni erano testimoni, lui era il pubblico ministero. Il mio bambino meraviglioso aveva già ben in mente il concetto di giustizia. Come posso non averlo io?». Questo è il punto: la giustizia. Adele l’ha cercata, l’ha rincorsa, l’ha chiesta in ogni dove senza arrendersi mai, nemmeno quando sembrava che fosse tutto perduto. E oggi è grazie alla sua tenacia se si terrà un processo bis sul disastro del Jolly Nero, il portacontainer che il 7 maggio del 2013 si schiantò contro la banchina del porto di Genova. La torre di controllo crollò in acqua e lì dentro c’era anche Giuseppe, 30 anni, marinaio della Guardia Costiera. I morti quel giorno furono nove.

LE RESPONSABILITÀ DEI COSTRUTTORI E DEI PROGETTISTI
«Io ho visto le mani di mio figlio, signor giudice» ha detto Adele in aula durante il primo processo contro l’equipaggio e l’armatore. «Le sue dita erano consumate... chissà quanto tempo avrà provato ad aprire quella porta». Il processo si è chiuso con la condanna penale di quattro imputati, l’assoluzione di altri due e la condanna amministrativa della società degli armatori (Messina). A ottobre si celebrerà l’appello. Adele però ha sempre creduto che le responsabilità fossero da cercare anche fra i costruttori, i progettisti, i collaudatori della torre. E fra i vertici della Guardia Costiera che quel giorno rappresentavano i datori di lavoro di Giuseppe. «Io nella vita sono stata solo moglie e mamma, nient’altro. Non sono laureata e non sono esperta di costruzioni o di sicurezza sul lavoro», dice. «Ma dopo la morte di mio figlio dovevo dare un senso al mio dolore. Così mi sono studiata tutti gli atti dell’inchiesta, migliaia di pagine. Li ho praticamene imparati a memoria».

MIGLIAIA DI PAGINE
Più leggeva più capiva, più capiva più metteva a fuoco i punti deboli delle indagini, quelli mancanti. Rimase sbalordita quando la Procura chiese l’archiviazione dell’inchiesta sulla costruzione della torre. «Dovevo fare qualcosa» racconta ripensando a quei giorni. «Non sanno di cos’è capace una mamma che vuole giustizia per suo figlio...». Lei, Adele, è stata capace di andare a cercare tutti i testimoni di cui aveva letto i nomi sui giornali, di incrociare le loro versioni, di ingaggiare consulenti che l’aiutassero a individuare le falle dell’inchiesta, di creare una pagina Facebook per mettere online ogni documento, ogni fotografia che potesse aiutarla a raccogliere indizi validi. «Ha studiato così a fondo le norme sulle certificazioni di sicurezza delle navi e sulle autorizzazioni per la costruzione della torre che alla fine ne sapeva almeno quanto noi, se non di più» giura Alessandra Guarini, uno dei tre avvocati che la difendono oggi (gli altri due sono Massimiliano Gabrielli e Cesare Bulgheroni).

IL RINVIO A GIUDIZIO
I legali di allora (erano altri) si opposero all’archiviazione portando in Procura gran parte della documentazione che Adele aveva messo assieme con la sua personalissima inchiesta «di una madre che cerca la verità», come dice lei, «e non c’è verità senza giustizia». Il giudice delle indagini preliminari ha letto tutto con attenzione e le ha dato ragione: «Non si archivia niente, si indaga altri otto mesi», ha ordinato. Gli otto mesi sono passati. Alla fine delle nuove indagini anche la Procura si è convinta delle ragioni di Adele. Il pm Walter Cotugno ha avuto l’onestà intellettuale di ammettere che sì, in effetti non era stata una buona mossa la richiesta di archiviazione. E stavolta ha chiesto il processo per progettisti, costruttori, collaudatori e per l’ammiraglio che avrebbe dovuto garantire la sicurezza di Giuseppe nella torre, cioè il luogo di lavoro di quel marinaio. L’udienza preliminare si è chiusa con il rinvio a giudizio di dodici persone (ammiraglio compreso) della società Rimorchiatori Riuniti e della Corporazione dei piloti del porto. Inizio del processo: 19 settembre. «Non voglio colpevoli a tutti i costi» chiarisce Adele. «Voglio solo andare fino in fondo. Lo devo a mio figlio».

Giusi Fasano

Tratto da Corriere della Sera

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