Antonio Cianci, 60 anni, è stato arrestato dopo una breve fuga alla stazione della metro. A 20 anni aveva trucidato tre carabinieri. Il giudice gli aveva concesso di vistare la sorella sulla base di un rapporto del penitenziario che parlava tra l'altro di "consapevolezza, maturità, affidabilità". Il ministro Bonafede invia gli ispettori
Un permesso premio di un giorno per fare visita alla sorella. Ma in quelle ore di libertà, Antonio Cianci, ergastolano che più di quarant’anni fa aveva ucciso a bruciapelo tre carabinieri e un metronotte, ha accoltellato alla gola un 79enne in un parcheggio dell’ospedale San Raffaele di Milano. Il motivo: una rapina che gli avrebbe fruttato poche monete e un cellulare. Ora Cianci – 60 anni, da 40 in carcere – è di nuovo in cella, accusato di tentato omicidio. La vittima della sua aggressione, l’anziano, non è in pericolo di vita e tra qualche giorno potrebbe essere dimesso. Ma resta da capire perché un ergastolano che finì detenuto accompagnato dalla descrizione di killer spietato e lucido è stato premiato di un giorno di libertà. A pesare, infatti, è stata una relazione del carcere di Bollate sulla base della quale il giudice di sorveglianza ha preso la sua decisione: un cambiamento reale nei comportamenti, era scritto in quel rapporto, un percorso positivo negli ultimi anni in cui ha dimostrato consapevolezza, maturità, affidabilità e di non essere più “socialmente pericoloso“. Anche per questo il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha mandato gli ispettori. Inevitabile, peraltro, il collegamento con le recenti pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale che ha rimesso in mano a ciascun giudice di sorveglianza e caso per caso l’autorizzazione ai permessi premio per gli ergastolani condannati per mafia.
I fatti si sono svolti sabato nel tardo pomeriggio, nel parcheggio sotterraneo del San Raffaele, al piano “meno 1”, vicino a delle macchinette del caffè. Secondo la ricostruzione della polizia, Cianci ha avvicinato l’anziano (che era lì per visitare un familiare) per chiedergli dei soldi e al rifiuto dell’anziano, lui l’avrebbe colpito alla gola con un taglierino, portandogli via pochi soldi e il telefonino. Gli agenti hanno bloccato la sua fuga alla stazione della metropolitana di Cascina Gobba. Aveva ancora il taglierino sporco di sangue con sé e i pantaloni insanguinati.
Cianci, originario di Cerignola (Foggia) e che le cronache dell’epoca descrivevano come un giovane dal passato difficile e un “patito di armi”, aveva 20 anni quando, nella notte tra l’8 e il 9 ottobre del 1979, uccise i tre carabinieri che lo avevano fermato ad un posto di blocco tra Liscate e Melzo, in provincia di Milano, a bordo di un’auto che risultava rubata. Mentre i militari controllavano i suoi documenti quella notte, scoprendo, tra l’altro, che a 15 anni (cinque anni prima) aveva già ucciso un metronotte di 29 anni Gabriele Mattetti a Segrate (venne assolto per incapacità mentale e fece 3 anni di riformatorio), il giovane fece fuoco con una pistola automatica. Uccise il maresciallo Michele Campagnuolo, l’appuntato Pietro Lia e il carabiniere Federico Tempini.
Quando venne arrestato, Cianci non confessò e disse, anzi, che a sparare ai militari dell’Arma erano stati alcuni sconosciuti a bordo di un’auto. Al processo di primo grado venne condannato all’ergastolo, confermato in appello nel 1983. Processo quest’ultimo in cui finalmente, però, con una lettera ai giudici confessò la strage e la condanna venne confermata, poi, anche in Cassazione. Dagli atti giudiziari dell’epoca emerge la figura di un killer spietato e lucido, che non esitava a sparare “alle spalle”, al volto e “al cuore” di una persona a terra, e poi a “frugare tra i cadaveri” per portare via le armi alla sue vittime. Fino a sabato era rimasto recluso a Bollate, ora si trova a San Vittore in attesa della convalida. Anche in questo caso, davanti al pm Nicola Rossato, è rimasto in silenzio. Il gip proverà di nuovo a interrogarlo lunedì e martedì.
Ma perché allora Cianci era fuori dal carcere? Il via libera l’aveva dato il tribunale di sorveglianza che si era basato su una relazione del carcere di Bollate. In quel documento il penitenziario aveva parlato di “un cambiamento reale nei comportamenti” e aveva escluso che il detenuto fosse ancora “socialmente pericoloso”. La firma per il primo ok al permesso l’aveva messa il 26 luglio il giudice Simone Luerti e Cianci era già uscito 3-4 volte dall’estate in poi. A Bollate, un carcere-modello, il 60enne era arrivato nel 2017 (prima era ad Opera) dopo un’altra valutazione positiva. Valutazioni che davano conto che Cianci, detenuto da 40 anni ininterrottamente, dopo i primi anni faticosi in cui aveva subito provvedimenti disciplinari, nell’ultimo periodo si era sempre comportato bene, tanto che in passato era stato anche ammesso al lavoro esterno.
L’ultimo permesso aveva la durata di 12 ore (dalle 9 alle 21) con obbligo di accompagnamento del detenuto dal carcere a Cernusco sul Naviglio, dove abita la sorella, e con lo stesso obbligo per il rientro. Cianci, che negli altri casi non aveva commesso violazioni (ai primi di novembre lo ottenne di 3 giorni), ieri si è invece allontanato da Cernusco per andare al San Raffaele, dove – oltre ad aver ferito in modo grave l’anziano – ha rubato anche una felpa da inserviente dell’ospedale e una mascherina per camuffarsi.
Il beneficio gli era stato concesso sulla base dell’articolo 30 ter della legge sull’ordinamento penitenziario che lo riserva anche ai condannati all’ergastolo, dopo 10 anni di detenzione, che hanno “tenuto regolare condotta” e che “non risultano socialmente pericolosi”. Questa storia, però, inevitabilmente ha sollevato polemiche proprio per il via libera a quel beneficio, poco dopo le pronunce controverse sui permessi agli ergastolani di mafia. Il ministro guardasigilli Bonafede che ha già dato mandato all’ispettorato di via Arenula di compiere accertamenti preliminari. “Nessun premio ai killer spietati, soprattutto se hanno ucciso donne o uomini in divisa!”, ha commentato il leader della Lega Matteo Salvini. Mentre Emanuela Piantadosi, presidente dell’Associazione Vittime del Dovere, si chiede: “Quanto altro spargimento di sangue si dovrà avere prima che il ministro della Giustizia e il governo prendano coscienza di quanto sia fondamentale monitorare seriamente la recidiva in questo Paese?”.
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